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Bambino malformato: risarcimento esteso anche al padre

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La Corte di Cassazione ha confermato che il padre ha diritto al risarcimento del danno se il bimbo nasce malformato a causa dell’inadempimento colpevole del medico.

La Corte di Cassazione (terza civile n. 13/2010 depositata in data 04/01/2010) torna sul tema della procreazione cosciente e responsabile ed afferma che il padre, esattamente come la madre, ha diritto al risarcimento del danno se il bimbo nasce malformato a causa dell’inadempimento colpevole del medico. Medico che, come riaffermato anche dalla sentenza in commento, risulta contrattualmente responsabile per inadempimento.
In particolare, l’imperizia del sanitario che impedisca alla donna di esercitare il proprio diritto all’aborto e che comporti la nascita di un bambino malformato, determina un danno alla salute non solo della madre, ma anche del padre del bambino. Invero, poiché il rapporto che lega il sanitario alla gestante assume i caratteri di un contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito, che per effetto dell’attività professionale dell’ostetrico-ginecologo diventa o non diventa padre il danno provocato da inadempimento del sanitario costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei suoi confronti e, come tale, deve intendesi risarcibile ai sensi e per gli effetti del disposto normativo di cui all’art. 1223 c.c.

Di seguito si riporta il testo integrale della sentenza.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 28 ottobre 2004 – 25 gennaio 2005 la Corte di Appello di Perugia, accoglieva in parte l’appello proposto da U.L.U. e A.R. avverso la decisione del Tribunale di Spoleto del 25 settembre 1997, condannando la ASL n.(OMISSIS) al pagamento della somma di Euro 400.000,00 ciascuno con interessi legali, a titolo di risarcimento dei danni dagli stessi subiti in dipendenza della tardiva diagnosi di una malformazione fetale della propria figlia S., nata con agenesia totale di un arto inferiore e focomelia dell’altro.

In pratica i coniugi avevano rivendicato il loro diritto ad una procreazione cosciente e responsabile. Secondo gli stessi la L. n. 194 del 1978, art. 4, che riconosce alla madre la facoltà di ricorrere alla interruzione volontaria della gravidanza entro 90 giorni nel caso di anomalie o malformazione del concepito, attribuirebbe ai genitori un legittimo diritto di scelta “circa il diventare madre di un minore con problemi fisici, oppure rinunciare per motivi di ordine personale”.

La domanda proposta dai coniugi U.L. e A. nei confronti del medico ginecologo, prof. Ar., il radiologo Dott. Z. e la ASL n.(OMISSIS) era stata rigettata dal Tribunale.

I giudici di appello hanno ricostruito nel modo seguente i fatti di causa, sulla base delle testimonianze rese, della consulenza tecnica di ufficio disposta in grado di appello e della documentazione versata nel giudizio di primo grado:

– la A. era stata ricoverata all’ottava settimana di gravidanza dal'(OMISSIS) presso l’Ospedale civile di (OMISSIS), nel reparto diretto dal prof. Ar.;

– in quella occasione, la patologia dalla quale era affetto il feto non era in alcun modo riscontrabile attraverso l’indagine ecografica eseguita (secondo quanto accertato dal c.t.u.):

– il prof. Ar. aveva visitato la A. nei primi giorni dell'(OMISSIS) e le aveva prescritto una ecografia da eseguire nel più breve tempo possibile;

– l’esame ecografico era stato fissato dalla struttura ospedaliera al (OMISSIS);

– eseguita l’ecografia, la stessa non aveva rivelato la patologia da cui il feto era affetto;

– la diagnosi di malformazione era stata effettuata a seguito della successiva ecografia, effettuata il (OMISSIS);

– il (OMISSIS) era nata la bambina, affetta da agenesia all’arto inferiore destro e focomelia all’arto inferiore sinistro.

La Corte territoriale ha escluso qualsiasi responsabilità del prof. Ar..

Questi, infatti, aveva prescritto l’ecografia con ragionevole anticipo e se la stessa fosse stata eseguita tra la ventesima e la ventiduesima settimana (come previsto dall’apposito protocollo) e con adeguata perizia, non si sarebbe verificato alcun errore diagnostico.

I giudici di appello hanno, parimenti, escluso una responsabilità del medico radiologo, osservando che lo stesso era assente nel giorno in cui era stato effettuato l’esame ecografico.

Tanto premesso, riformando sul punto la decisione di primo grado, i giudici di appello hanno rilevato che la responsabilità della tardiva diagnosi della malformazione doveva essere attribuita alla ASL di (OMISSIS), da cui dipendeva l’ospedale presso il quale era stata eseguita l’ecografia del (OMISSIS).

La Corte territoriale ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, per a quale la relazione che si instaura tra la struttura sanitaria ed il paziente da luogo ad un rapporto di tipo contrattuale, quand’anche fondato sul solo contatto sociale, sicchè in base alla regola prevista dall’art. 1218 c.c., il paziente ha l’onere di allegare la inesattezza dell’inadempimento e non, invece, la colpa nè tanto meno la sua gravità – da parte della struttura sanitaria, mentre spetta alla controparte la dimostrazione della non imputabilità dell’inadempimento.

Il punto fermo dal quale occorreva partire, dunque, era che la ASL risponde della prestazione fornita a titolo di inadempimento contrattuale.

La coppia U.L.- A. era rimasta vittima di un duplice inadempimento: una disfunzione organizzativo – strutturale senz’altro comune, ma non per questo tollerabile, ed un errore professionale colossale.

Sotto il primo aspetto, occorreva rilevare che la ecografia richiesta dal ginecologo avrebbe dovuto effettuata, nell’osservanza dei parametri comunemente accettati, indicati anche nella consulenza tecnica, dalla ventesima alla ventiduesima settimana, mentre era stata effettuata – anche se richiesta tempestivamente in data (OMISSIS), come risultava dalla documentazione in atti – solo il (OMISSIS) ossia intorno alla ventottesima settimana, dunque con un ritardo di circa due mesi sul dovuto.

Inoltre la ecografia del gennaio 1990 era stata male interpretata.

Non poteva dubitarsi – ha proseguito la Corte dell’errore professionale consistito nel non aver diagnosticato la gravissima patologia dalla quale il feto era affetto. Infatti, il consulente tecnico di ufficio aveva chiaramente affermato che la patologia dalla quale alla nascita era affetta la figlia degli originari attori era certamente evidenziatale ecograficamente anche con gli apparecchi di cui si disponeva a la fine degli anni (OMISSIS) attraverso una ecografia morfologica eseguita tra la ventesima e le ventiduesima settimana. “Operando con una normale diligenza ed utilizzando la strumentazione dell’epoca, un ecografista non già eccellente, ma neppure completamente negligente, un medio ecografista, insomma, avrebbe dovuto saper vedere”.

Una volta fallita la tempestiva diagnosi, la donna aveva perso la possibilità di seguire la strada della interruzione volontaria della gravidanza.

I giudici di appello osservavano che gli attori non potevano fornire la prova che avrebbero fatto effettivamente questa ultima scelta.

Il momento era oramai trascorso e nessuno poteva dunque dire se i coniugi avrebbero scelto la soluzione della interruzione della gravidanza.

A nulla rilevava, poi, che la diagnosi corretta di malformazione fetale fosse stata fatta il (OMISSIS), a quel punto si era oramai all’ingresso del nono mese di gravidanza ed era difficile negare che il feto avesse possibilità di vita autonoma, preclusiva della interruzione volontaria di gravidanza.

Tanto premesso, la Corte territoriale procedeva alla liquidazione dei danni nella misura di L. 400.000 mensili fino all’età di trenta anni, a titolo di danno patrimoniale, per le spese occorrenti per il mantenimento della bambina fino al momento del raggiungimento della autonomia economia da parte sua. Procedeva poi alla liquidazione del danno morale soggettivo che liquidava per ciascun coniuge in Euro 30.000,00.

Quanto al danno esistenziale, la stessa Corte riconosceva la somma di Euro 200.000,00 per ciascun coniuge, liquidata alla attualità. Infine, a titolo di lucro cessante, in via equitativa i giudici di appello riconoscevano l’ulteriore importo di 100.000,00 (per un totale di 400.000,00 per ciascuno dei coniugi).

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la Gestione liquidatoria della Asl N.(OMISSIS), con cinque motivi di ricorso.

Resistono con controricorso U.L.U. e A.R., proponendo a loro volta ricorso incidentale, cui resistono Ar.Lu. e Ar.An. con controricorso. Altro ricorso è stato proposto dalla Azienda Unità sanitaria locale n. (OMISSIS) (n. 1277 del 2006), cui resistono con controricorso e ricorso incidentale i coniugi L.U. – A. e la Gestione liquidatoria unità sanitaria locale di (OMISSIS) in persona del Commissario liquidatore.

La Azienda Unitaria sanitaria locale n.(OMISSIS) e la Gestione liquidatoria Unità sanitaria locale di (OMISSIS) hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

 

1. Ai sensi dell’art. 335 c.p.c., deve innanzi tutto disporsi la riunione dei ricorsi, in quanto proposti tutti contro la medesima decisione.

2. Il ricorso della Gestione liquidatoria della USL n. (OMISSIS) è tempestivo in quanto proposto entro il termine lungo.

La notifica della sentenza effettuata insieme al precetto nella ASL n. (OMISSIS), presso la sede legale in (OMISSIS) ed in (OMISSIS), non è, infatti, idonea a far decorrere il termine breve, in quanto effettuata direttamente alla parte, insieme con il precetto di pagamento e dunque non eseguita nei modi stabiliti dall’art. 285 c.p.c..

Nè è fondata, al riguardo di tale ricorso, l’eccezione di inammissibilità, per difetto di legittimazione, formulata dalla difesa L.- A. sul rilievo che la Gestione liquidatoria della USL n. (OMISSIS) sarebbe rimasta estranea alla fase del gravame, nella quale la legittimazione passiva si sarebbe radicata, con effetto di giudicato interno, nei confronti della nuova ASL di (OMISSIS), contro la quale sarebbe stato proposto appello e resa la sentenza di primo grado.

Tali rilievi non colgono nel segno, atteso che la indicazione “ASL di (OMISSIS)” – che effettivamente appare nell’atto di appello ed in epigrafe della sentenza impugnata, ma che non corrisponde ad un soggetto effettivamente esistente, in quanto le funzioni della USL di (OMISSIS) (evocata nel giudizio di primo grado) erano state nel frattempo assorbite dalla “ASL di (OMISSIS)” – è evidentemente frutto di mero errore di denominazione, dovendosi ritenere sostanzialmente riferita, appunto, alla Gestione liquidatoria della vecchia USL di (OMISSIS).

E ciò in aderenza alle vicende normative che hanno interessato le UU.SS.LL. Per effetto della cui soppressione e della conseguente istituzione delle Aziende Unità Sanitarie locali (aventi natura di enti strumentai della Regione), si è realizzata – come già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte – una fattispecie di successione “ex lege” delle Regioni in tutti i rapporti obbligatori facenti capo alle ormai estinte U.S.L., con la conseguente esclusione di ogni ipotesi di successione “in universum ius” delle A.S.L. alle preesistenti U.S.L..

Successione, questa, delle Regioni caratterizzata, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 6, da una procedura di liquidazione, che è affidata ad un’apposita gestione stralcio, la quale è strutturalmente e finalisticamente diversa dall’ente subentrante ed individuata dalla legge nell’ufficio responsabile della medesima unità sanitaria locale a cui si riferivano i debiti e i crediti inerenti alle gestioni pregresse, usufruisce della soggettività dell’ente soppresso (che viene prolungata durante la fase liquidatoria), ed è rappresentata dal direttore generale della nuova azienda sanitaria nella veste di commissario liquidatore. (Cass. 20 settembre 2006 n. 2 0412), che appunto, come tale, si è in sostanza costituito nel giudizio “a quo”.

Sulla base delle disposizioni richiamate, il successivo ricorso dell’Azienda USL di (OMISSIS) deve essere invece dichiarato inammissibile, in quanto proposto da soggetto non legittimato, tale essendo – come detto – unicamente la Gestione liquidatoria della unità sanitaria locale di (OMISSIS), in persona del Commissario liquidatore (cfr. Cass. 1237 del 2000 S.U. e Cass. 22 maggio 2007 n. 11841).

3. Può pertanto procedersi all’esame del ricorso principale della Gestione liquidatoria della Unità Sanitaria locale di (OMISSIS) (n. 26538 del 2005) e del ricorso incidentale della stessa Gestione (n. 5193 del 2006) dall’analogo contenuto.

3.1. Con il primo motivo la ricorrente Gestione liquidatorìa denuncia nullità della sentenza e del procedimento, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., (art. 360 c.p.c., n. 4) insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).

Nell’atto di citazione in primo grado, i coniugi U.L. e A. avevano agito in proprio e quali genitori della figlia minore, U.L.S., ed avevano richiesto il risarcimento dei danni in entrambe le qualità, deducendo il diritto di entrambi i genitori ad interrompere volontariamente la gravidanza e della propria figlia a non nascere ovvero a nascere sana.

Nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado l’appello avverso la sentenza del Tribunale era stato invece proposto da U.L.U. e A.R. soltanto “quali genitori della minore U.L.S.”.

Tuttavia il capo della sentenza impugnato non era stato quello che aveva respinto la domanda di risarcimento danni fondata sulla lesione de, diritto da loro vantato per conto della figlia S., ma solo quello relativo alla richiesta di risarcimento avanzata dai coniugi per il ristoro dei pregiudizi da essi direttamente subiti.

La Corte territoriale non aveva rilevato l’evidente carenza di legittimazione ad agire, ritenendo che vi fosse stato un errore scusabile e che al di là delle espressioni usate, tenendo conto delle argomentazioni svolte l’appello fosse stato proposto dai genitori in proprio.

L’unico significato giuridico attribuibile alla espressione contenuta nell’atto di appello era – all’opposto – quello indicato dalla attuale ricorrente e la diversa soluzione individuata dai giudici di appello faceva leva su di un ragionamento assolutamente empirico e metagiuridico, traducendosi in una inammissibile sanatoria “ex officio” della carenza di legittimazione.

Osserva il Collegio:

Il motivo è inammissibile ancor prima che infondato.

La Corte territoriale, esaminando l’atto di appello, ha ritenuto che ciò di cui gli appellanti intendevano ancora discutere era soltanto il loro diritto al risarcimento dei danni, nei confronti degli originari convenuti, derivati dal l’asserito errore nella diagnosi di malformazione fetale.

In tal senso, del resto, era la precisazione contenuta nella prima conclusionale degli appellanti, nella quale gli stessi avevano espressamente chiarito di avere agito in proprio e di avere fatto – invece – acquiescenza alla sentenza di primo grado, nella parte in cui escludeva l’esistenza di un diritto a non nascere della figlia. In pratica, la dicitura “quali genitori della minore S.” -secondo ì giudici di appello – doveva intendersi come una specificazione del rapporto di parentela esistente tra minore e gli appellanti e non quale sostituzione processuale “ex lege”.

Si tratta di una interpretazione di merito, congruamente motivata, che sfugge dunque a qualsiasi censura di violazione di legge e di vizi motivazionali.

3.2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1218 c.c., insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

I giudici di appello avevano ritenuto che l’inadempimento imputabile all’Ospedale di (OMISSIS) fosse consistito non solo nella mancata diagnosi di malformazioni fetali al momento della esecuzione dell’ecografia del (OMISSIS), ma anche nella ritardata effettuazione di tale esame.

Si tratterebbe, secondo la Gestione ricorrente, di un rimprovero del tutto ingiustificato, in quanto basato su una ricostruzione dei fatti chiaramente contraddetta da tutte le risultanze istruttorie, acquisite al processo. Nessun inadempimento o ritardo nell’adempimento era imputabile all’Ospedale di (OMISSIS) e dunque alla USL, in conseguenza del ritardo nella effettuazione della (seconda) ecografia del (OMISSIS).

Infatti, ricorda la ricorrente, sin all’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, gli appellanti avevano dichiarato che non vi era “prescrizione con carattere di urgenza dell’esame ecografico del (OMISSIS)” ed avevano imputato la responsabilità di tale omissione al prof. Ar., in tal modo escludendo qualsiasi ritardo nella esecuzione della ecografìa, imputabile alla ASL. Il motivo, così articolato, non è però pertinente, perchè non coglie, sul punto, la ratio assorbente del decisum. A tenore della quale costituiva circostanza del tutto irrilevante che la richiesta di ecografia avanzata dal consultorio di Bastardo contenesse – o meno – la indicazione della urgenza dell’esame.

I giudici di appello hanno sottolineato che esistendo un normale protocollo, alla stregua del quale la ed, ecografia “morfologica” doveva essere effettuata dalla ventesima alla ventiduesima settimana (secondo quanto chiarito dal c.t.u.) essa avrebbe dovuto essere disposta entro quell’arco temporale non già per la allegazione di specifiche ragioni di urgenza, ma per le caratteristiche proprie dell’esame da compiere.

In ordine a tale punto della decisione non è stata sollevata alcuna censura da parte della ricorrente. E, sotto altro profilo, la Corte territoriale ha, del resto, precisato che la ASL non aveva affatto dimostrato – come pure sarebbe stato suo preciso onere – di non aver potuto effettuare in precedenza l’esame ecografico richiesto per la indisponibilità di mezzi.

3.3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 2043 e 2697 c.c., L. 22 maggio 1978, n. 194, artt. 6 e 7, nonchè insufficiente o contraddittoria motivazione su fatti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Al momento della ecografia del (OMISSIS), la A. era ben oltre il 90^ giorno e dunque la scelta abortiva non poteva considerarsi affidata alla libera autodeterminazione della donna, ma al preventivo accertamento di specifiche e rigorose condizioni (la interruzione della gravidanza può essere praticata solo: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, ovvero, b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna). Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, la interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui all’art. 6, lett. a), e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

La sentenza della Corte perugina si basava su alcune considerazioni del tutto astratte e disancorate dal caso concreto, finendo dunque per introdurre un inammissibile automatismo tra la presenza delle malformazioni e il danno grave alla salute.

Nel caso di specie, rileva ancora la ricorrente, alla A. non era stato riscontrato alcun processo patologico in grado di determinare grave pericolo per la sua salute, nè al momento in cui la stessa venne a conoscenza delle malformazioni della figlia ((OMISSIS)) nè successivamente al parto, tanto che la stessa Corte territoriale non aveva riconosciuto alla stessa l’esistenza di un danno biologico.

Da censurare era, infine, il ragionamento attraverso il quale i giudici di appello erano giunti alla conclusione che in ogni caso il feto, ne caso di specie, non avesse possibilità di vita autonoma.

Contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, al momento della esecuzione della ecografia del (OMISSIS), l’ A. era oramai al settimo mese di gravidanza, con la conseguenza che il feto aveva raggiunto quel grado di maturità che gli avrebbe consentito di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori del grembo materno.

Anche questo motivo, però, è privo di fondamento.

La L. n. 194 del 1978, dispone che dopo i primi novanta giorni l’interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata:

a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (art. 6 lett. a) – in questo caso e solo in questo l’interruzione può essere praticata anche se sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, ma allora il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarla (art. 7, comma 3);

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna – ma, come si è visto, qui l’interruzione non può essere praticata, se per il feto sussiste la possibilità di vita autonoma.

Il giudice di primo grado, dopo aver considerato che durante la gravidanza non s’era mai presentato per la gestante alcun pericolo, ha anche escluso che la nascita del figlio malformato avesse determinato nella madre l’insorgere di gravi processi patologici capaci di metterne in pericolo la vita. Il Tribunale ha rilevato che “il disporre oggi … una consulenza tecnica diretta ad accertare se vi sia stato un pregiudizi o del tipo detto e se questo potesse essere in tutto o in parte evitato con una informazione trasmessa circa tre mesi prima dal parto (anzichè uno soltanto) significherebbe fare opera soltanto esplorativa con scarsissime possibilità di apprezzabile successo”.

La Corte d’appello ha ritenuto di non poter seguire le considerazioni svolte dal giudice di primo grado ed ha osservato come la legge stessa (art. 6 cit.) preveda che “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro” possano gravemente influire sulla salute psichica della donna ed ha concluso che nella specie doveva indubbiamente riconoscersi – con un giudizio da formularsi nella prospettiva di prognosi postuma – altamente probabile che la conoscenza della gravissima patologia dalla quale il feto era affetto, nel periodo ricompreso tra la ventesima e la ventiduesima settimana, o tutt’al più, alla data del (OMISSIS), avrebbe determinato il pericolo di una reazione depressiva e, dunque, avrebbe posto a repentaglio la salute psichica della donna. E che la stessa avrebbe ottenuto il consenso medico alla interruzione della gravidanza, qualora fosse stata correttamente informata dal professionista sulle malformazioni del feto.

Siccome il grave pericolo per la salute, non per la vita della donna, può interessare anche solo la sua salute psichica e siccome questo pericolo può derivare da un processo patologico innescato dal fatto di sapere che il figlio da lei concepito presenta, e perciò nascerebbe, con rilevanti anomalie o malformazioni, inerisce alla situazione descritta che la donna conosca tale condizione del nascituro.

Per cui – come del resto questa Corte ha già avvertito nella sentenza 1 dicembre 1998 n. 12195 e 10 maggio 2002 n. 6735 – quante volte si tratta di stabilire non se la donna possa esercitare il suo diritto di interrompere la gravidanza, ma cosa la stessa avrebbe deciso ove fosse stata convenientemente informata sulle condizioni del nascituro, non si deve già accertare se in lei si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la sua salute psichica, ma se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l’insorgere di un tale processo patologico.

In tal modo i giudici di appello hanno tenuto conto di quanto affermato in casi analoghi dalla giurisprudenza di questa Corte:

“L’omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente è tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza” (Cass. 21 giugno 2004 n. 11488).

La ricorrente censura questa parte della decisione, rilevando che al momento della seconda ecografia del (OMISSIS), in ogni caso, il feto aveva già vita autonoma e dunque la A. non avrebbe in ogni caso potuto interrompere la gravidanza.

Entrambe queste argomentazioni sono state confutate dalla Corte territoriale.

Con accertamento che sfugge a qualsiasì censura, i giudici di appello hanno negato – sulla base del quadro probatorio disponibile nel giudizio – che anche alla data del (OMISSIS) (ma la ecografia avrebbe dovuto essere eseguita tra la ventesima e la ventiduesima settimana) il feto avesse possibilità di vita autonoma.

In tal modo, i giudici di appello hanno dimostrato di conoscere e condividere l’insegnamento di questa Corte, secondo il quale:

“Per possibilità di vita autonoma del feto si intende quel grado di maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall’ambiente materno.

Pertanto, in una causa in cui si discute se la donna sia stata impedita ad interrompere la gravidanza da un inadempimento del medico ad una sua obbligazione professionale, l’eventuale interrogativo concernente la possibilità di vita autonoma del feto va risolto avendo riguardo al grado di maturità raggiunto dal feto nel momento in cui il medico ha mancato di tenere il comportamento che da lui ci si doveva attendere” (Cass. 10 maggio 2002 n. 6735).

La valutazione espressa dalla Corte territoriale sfugge, dunque, a qualsiasi censura.

3.4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 Cost., della L. n. 194 del 1978, artt. 1, 6 e 7, e degli artt. 1218, 1223, 1226 e 2043 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il bene della vita rappresenta il valore primari o e centrale in ogni sistema giuridico democratico.

Una volta avvenuto il concepimento, la sorte del feto non rientra nella disponibilità dei genitori, nè in quella della sola madre, e non viene lasciata alla loro libera determinazione.

Solo nella ipotesi in cui l’interesse costituzionalmente protetto del nascituro sia suscettibile di confliggere con quello, avente parimenti rilevanza costituzionale, della madre alla tutela della propria salute, viene riconosciuta a quest’ ultima – e non anche al padre – la facoltà di scegliere quale dei due interessi sacrificare.

Doveva conseguentemente escludersi qualsiasi danno del padre o di altri congiunta, la cui esistenza dovrebbe, comunque, essere rigorosamente provata.

Gli unici danni che la madre può lamentare sono quelli alla sua salute.

Poichè nel caso di specie i giudici di appello avevano escluso qualsiasi patologia a carico della A., e non sussisteva quindi alcun danno biologico, non vi era spazio per la liquidazione di altre tipologie di danno.

Anche questo motivo è privo di fondamento.

In ordine alla possibilità di far ricorso alla interruzione volontaria di gravi danza, nei casi indicati dalla legge, si è già detto in precedenza. Come sul fatto che secondo la Corte territoriale “certo la A. avrebbe ottenuto il consenso medico all’interruzione della gravidanza se fosse stata correttamente informata dal professionista sulle malformazioni, del feto”.

I giudici di appello hanno escluso il danno biologico, ritenendo tuttavia – con una valutazione congrua che sfugge a qualunque censura – che entrambi i coniugi avessero subito un danno in conseguenza della mancata interruzione volontaria della gravidanza.

Interrogandosi, poi, in ordine al tipo di danno determinato dalla lesione del diritto alla autodeterminazione della donna, con la conseguente nascita indesiderata, (definibile come danno esistenziale o in qualsiasi altro modo) i giudici di appello hanno osservato (cfr. punto 8.2.3.):

“La nascita indesiderata, invero, determina una radicale trasformazione delle prospettive di vita dei genitori, i quali si trovavano esposti a dover misurare (non i propri specifici “valori costituzionalmente protetti”, ma) la propria vita quotidiana, l’esistenza concreta, con le prevalenti esigenze della figlia, con tutti gli ovvi sacrifici che ne conseguono: le conseguenze della lesione del diritto di autodeterminazione nella scelta procreativa, allora finiscono per consistere proprio nei “rovesciamenti forzati dell’agenda” di cui parte della dottrina discorre nel prospettare la definizione del danno esistenziale”.

“Insomma, ha concluso la Corte territoriale, la fattispecie in esame sembra costituire un caso paradigmatico di lesione di un interesse che non determina un prevalente danno morale o biologico, peraltro sempre possibile, ma impone al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore (quanto si voglia nobilitata dalla dedizione al congiunto svantaggiato, ma peggiore, tanto che nessuno si augurerebbe di avere un figlio senza gambe piuttosto che con) di quella che avrebbe altrimenti condotto”.

I giudici di appello, in tal modo, hanno correttamente applicato i principi formulati da questa Corte, secondo i quali, in casi del genere, il danno risarcibile non può essere limitato solo al danno alla salute in senso stretto della gestante (in questo senso, invece, Cass. 8.7.1994, n. 6464).

Lo stato patologico ed il pericolo grave per la salute rilevano, infatti, solo ai fini del perfezionamento della fattispecie per l’esercizio del diritto di interruzione della gravidanza, ma una volta che esso si è perfezionato, non operano come limitazione della responsabilità del sanitario inadempiente.

In altri termini detto pericolo di danno grave alla salute, che si inserisce su un processo patologico, delimita il diritto di aborto, non la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria.

Poichè si versa in tema di inadempimento contrattuale, il danno, al cui risarcimento il debitore inadempiente è tenuto ex art. 1218 c.c., deve essere valutato secondo i criteri generali di cui agli artt. 1223, 1225 e 1227 c.c..

Se danno è il pregiudizio subito dal creditore, allora è questo pregiudizio che occorre risarcire, secondo i principi della regolarità causale (art. 1223 c.c.).

In questo danno rientra non solo il danno alla salute in senso stretto ma anche il danno economico, che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata (Cass. n. 12195/1998).

Quanto all’analogo diritto del padre, i giudici di appello hanno condiviso l’indirizzo giurisprudenziale di questa Corte che ammette anche il padre del bambino malformato, tra i soggetti protetti dal contratto, con la conseguenza che la struttura sanitaria in caso di suo inadempimento è tenuta a risarcire i danni immediati e diretti subiti anche dal padre.

“Qualora l’imperizia del medico impedisca alla donna di esercitare il proprio diritto all’aborto, e ciò determini un danno alla salute della madre, è ipotizzatane che da tale danno derivi un danno alla salute anche del marito” (Cass. 29 luglio 2004 n. 14488, 10 maggio 2002 n. 6735, 11 maggio 2009 n. 10741).

Sicuramente il padre non ha titolo per intervenire sulla decisione di interrompere la gravidanza, ai sensi della L. del 1978, ma diversa questione è quella relativa al danno che il padre del nascituro potrebbe subire, perchè altri hanno impedito alla stessa di esercitare il diritto di interruzione della gravidanza, che essa (e solo essa) legittimamente poteva esercitare.

In questo caso non si fa questione di un diritto del padre del nascituro ad interrompere la gravidanza della gestante, che certamente non esiste, ma solo se la mancata interruzione della gravidanza, determinata dall’inadempimento colpevole del sanitario, possa essere a sua volta causa di danno per il padre del nascituro.

La risposta al quesito è, come si è detto, positiva, e, poichè si tratta di contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito, che, per effetto dell’attività professionale dell’ostetrico – ginecologo diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale) il danno provocato da inadempimento del sanitario, costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei suoi confronti e, come tale è risarcibile a norma dell’art. 1223 c.c..

3.5. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043 e 2059 c.c., nullità della sentenza e del procedimento, violazione dell’art. 112 c.p.c., insufficiente e contraddittoria motivazione.

La liquidazione operata dai giudici di appello, in via equitativa, doveva considerarsi in ogni caso sproporzionata ed eccessiva.

I giudici di appello avevano liquidato, a titolo di danno emergente, gli oneri economici che i genitori avrebbero dovuto sostenere per il mantenimento della figlia fino al raggiungimento della piena indipendenza economica, pur in mancanza di qualsiasi prova e di una specifica domanda da parte degli attori.

Erroneamente la Corte aveva ritenuto che vi fosse nesso causale tra il comportamento dell’Ospedale di (OMISSIS) e il danno subito dai genitori a titolo di danno morale, a causa della mancata diagnosi delle malformazioni fetali. Il danno esistenziale (e comunque quello liquidato dai giudici di appello) viene generalmente riconosciuto nei casi di perdita delle relazioni affettive.

Nel caso di specie, invece, la nascita della figlia, pur incidendo sui tempi ed i ritmi della vita familiare, aveva soprattutto arricchito innegabilmente la famiglia di relazioni umane non meno dignitose e significative di quelle apportate dalla nascita di un figlio sano.

Anche quest’ultimo motivo del ricorso principale è destituito di fondamento, poichè attraverso la denuncia di violazione di norme di legge e di vizi della motivazione, la ricorrente finisce per sollecitare una diversa valutazione dei danni, inammissibile in questa sede.

Con motivazione congrua, i giudici di appello hanno – innanzi tutto – rilevato che i coniugi U.L. e A. avevano chiesto il riconoscimento dei danni “tutti” derivati dall’inadempimento contrattuale. Deve dunque escludersi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Hanno precisato, poi, che il danno patrimoniale doveva tener conto, non solo del “differenziale” tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio “sano” e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto dal deficit di cui si è detto, sottolineando che una volta stabilito che la A. avrebbe optato per la interruzione volontaria di gravidanza, “l’inadempimento posto in essere dalla ASL ha fatto si che la coppia debba sopportare per intero un costo economico che altrimenti non avrebbe avuto”. Con una valutazione, necessariamente equitativa, la Corte territoriale ha provveduto così a liquidare il danno patrimoniale ed ha individuato il momento del raggiungimento della indipendenza economica alla età di trenta anni.

Hanno quindi liquidato il danno non patrimoniale in favore di entrambi i genitori, sottolineando che nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce è garantisce i diritti inviolabili dell’uomo -, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, non esaurendosi esso nel danno morale soggettivo.

La Corte territoriale ha aggiunto che la fattispecie costituiva un caso paradigmatico di lesione di un diritto della persona, di rilievo costituzionale, che indipendentemente da un danno morale o biologico, peraltro sempre possibile, impone comunque al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore, di quella che avrebbe altrimenti condotto. Sulle base di tali premesse, la Corte territoriale ha proceduto alla liquidazione del danno non patrimoniale in senso lato (cfr. Cass. S.U. n. 26972 dell’11 novembre 2008, che espressamente – p. 42 – riconosce la lesione del diritto inviolabile della gestante che non sia stata posta in condizione, per errore diagnostico, di decidere se interrompere la gravidanza, con conseguente diritto al risarcimento di tutti i danni).

Utilizzando come parametro di riferimento, quello di calcolo del danno biologico, i giudici di appello hanno liquidato in via equitativa la somma di Euro 200.000,00 alla attualità in favore di ciascuno dei coniugi. Data la particolarità del caso la liquidazione non poteva che essere effettuata in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze.

Ed anche al riguardo di tal danno, le censure formulate dalla ricorrente sono del tutto apodittiche, poichè non tengono conto delle argomentazioni svolte dalla Corte territoriale. Tra l’altro, la ricorrente si limita a dedurre la eccessività del risarcimento liquidato, senza neppure indicare la misura congrua nella quale – a suo avviso – lo stesso avrebbe dovuto essere riconosciuto.

Pertanto, il vizio di insufficiente motivazione della sentenza di appello in ordine alla valutazione equitativa del danno – che si assume erroneamente effettuata – va escluso, anche in considerazione dell’insopprimibile carattere approssimativo di tale forma di liquidazione, in difetto di precise indicazioni, da parte della ricorrente, in ordine alla somma che a suo avviso sarebbe stata congrua, e conforme alle sue aspettative (neppure chiarite in sede di ricorso per cassazione).

4. Con l’unico motivo, i ricorrenti incidentali U.L.U. e A.R. denunciano la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1218, 1223, 2236 e 2697 c.c., nonchè art. 115 c.p.c.) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, censurando la decisione della Corte di appello nella parte in cui la stessa ha escluso la responsabilità professionale del prof. Ar..

Tra la A. e il prof. Ar. – sostengono i ricorrenti incidentali – era intercorso un vero e proprio rapporto professionale privato, come era risultato dalle testimonianze raccolte.

L’omesso esame di tale circostanza aveva consentito di escludere una diretta responsabilità del ginecologo nel ritardo della esecuzione dell’ecografia e nell’errore della interpretazione dell’esame eseguito.

La gravidanza della A. non poteva certo ritenersi “normale” sin dall’inizio, considerato che ella aveva subito un ricovero per minaccia di aborto sin dopo il primo mese di gestazione.

Il comportamento del prof. Ar. non poteva, dunque, definirsi in alcun modo adeguato, in relazione alla sua preparazione specifica ed alle condizioni della paziente.

Proprio in considerazione delle particolari condizioni di salute della paziente (che aveva avuto una minaccia di aborto con ricovero ospedaliero al primo mese di gravidanza) i ricorrenti incidentali osservano che il prof. Ar. avrebbe dovuto programmare lui stesso l’iter delle visite e stabilire un preciso calendario degli accertamenti indipendentemente dal contegno della paziente.

Tutte le censure cosi’ proposte con il ricorso incidentale sono infondate.

Si richiama quanto gia’ rilevato in ordine all’accertamento compiuto dai giudici di appello in ordine ad una responsabilita’ diretta del prof. Ar.

La Corte territoriale, sulla base delle testimonianze raccolte, ha rilevato che il prof. Ar. aveva visitato la A., una sola volta, dopo il ricovero dell'(OMISSIS), e precisamente ai primi dell'(OMISSIS).

Ora, il prof. Ar. non aveva fatto altro che prescrivere, con ragionevole anticipo – la ecografia “morfologica” che secondo il normale protocollo – del quale aveva parlato anche il consulente tecnico di ufficio – doveva essere effettuata tra la ventesima e la ventiduesima settimana (quindi entro la prima decade di (OMISSIS)).

Non vi era dubbio che se la ecografia fosse stata effettuata al momento giusto ed interpretata con adeguata perizia non vi sarebbe stato alcun ritardo o errore diagnostico.

Nessuna responsabilità poteva dunque configurarsi a carico del prof. Ar..

A fronte di tale, motivata, conclusione si infrangono tutte le censure dei ricorrenti incidentali, che si risolvono in una sostanziale istanza del riesame, inammissibile copie tale, in questa sede di legittimità. 5. Conclusivamente i ricorsi nn. 26538 del 2005 e 31185 del 2005 devono essere rigettati, e dichiarato inammissibile il ricorso n. 1277 del 2006 proposto dalla Azienda Unità sanitaria locale n.(OMISSIS).

6. L’esito della lite giustifica la compensazione delle spese tra tutte le parti.

7. Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, ricorrendone le condizioni, deve disporsi che, a cura della Cancelleria, sia apposta sull’originale della sentenza, una annotazione volta a precludere in caso di riproduzione in qualsiasi forma, la indicazione delle generalità e dei dati identificativi degli interessali, riportati nella decisione, e di tutti i dati dai quali possa desumersi anche indirettamente la identità di U.L.S. (secondo le modalità indicate nel Protocollo operativo 11 novembre 2009, della Commissione per il trattamento dei dati attinenti alla Corte di Cassazione, relativo alla attuazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, artt. 51 e 52).

 

P.Q.M.

 

La Corte riunisce i ricorsi.

Dichiara inammissibile il ricorso della Azienda Unità sanitaria locale n. (OMISSIS) n. 1277 del 2006. Rigetta i ricorsi 26538 del 2005 e 31185 del 2005.

Compensa le spese del giudizio tra tutte le parti.

Visto il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, dispone che sull’originale della sentenza sia apposta, a cura della Cancelleria, una annotazione volta a precludere in caso di svia riproduzione in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati, riportati sulla sentenza, nonchè di tutti i dati dai quali possa desumersi – anche indirettamente – la identità della signora U.L.S..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2010